Notes
Eseguito nel 1783 circa Le opere saranno inserite nel catalogo ragionato di prossima pubblicazione a cura di Fernando Mazzocca.
I due dipinti appartengono ai primi anni romani di Gaspare Landi. Dopo un giovanile apprendistato nella nativa Piacenza l'artista giungeva nella città eterna nel 1781 grazie al sostegno della famiglia dei suoi mecenati, i Landi delle Caselle, frequentando le accademie private di Pompeo Batoni e Domenico Corvi e dedicandosi allo studio delle antichità classiche e dei capolavori pittorici dei maestri del rinascimento e del classicismo seicentesco. Meditando i principi teorici contenuti negli scritti di Anton Raphael Mengs, in quegli anni Landi tentò in una serie di opere sperimentali di aderire alla riforma delle arti figurative allora in atto e che proprio a Roma avrebbe visto superato definitivamente il linguaggio tardobarocco in favore di un nuovo ideale ispirato all'antico nei capolavori di Antonio Canova, il Monumento a Clemente XIV (Roma SS.Apostoli) e Jacques-Luis David, Il giuramento degli Orazi (Parigi Louvre). Trovando la propria maturità artistica proprio nel corso di quel decennio Landi si affermò come uno dei protagonisti della pittura italiana della nuova generazione neoclassica, insieme ad Andrea Appiani, Luigi Sabatelli, Pietro Benvenuti e, a Roma, Vincenzo Camuccini, con il quale a lungo disputò il primato in pittura, trovando la sua cifra nell'attitudine per i soggetti "graziosi", al pari di Canova, suo amico e costante punto di riferimento figurativo, e soprattutto nella qualità del suo colorismo, ispirato alla pittura veneta e al preziosismo delle stesure pittoriche dei maestri quattrocenteschi recuperando la tecnica della velatura, per la quale fu addirittura celebrato dai contemporanei. L'dentificazione e il ritrovamento di questi due dipinti appare tanto più importante perché gran parte della sua produzione dei primi anni romani risulta ancora dispersa e solamente testimoniata dalle fonti antiche, dove si ritrovano puntualmente descritti e ampiamente commentati proprio le due tele rappresentanti Bacco e Arianna e Amore e Psiche. Nelle "Memorie per le Belle Arti", foglio periodico pubblicato a Roma tra il 1785 e 1788, uno dei primi giornali di critica d'arte militante dedicati esclusivamente alle arti contemporanee, Giovanni Gherardo de Rossi e Onofrio Boni si proponevano di promuovere la riforma del gusto neoclassica di cui diedero una sorta di manifesto teorico nel Proemio dell'opera. Landi fu uno degli artisti che trovarono più spazio nel giornale, con opere come Paride con la ninfa Enone, del 1783, Alessandro dona Campaspe al pittore Apelle, del 1785-87, Egeo riconoscente a mensa il figlio Teseo, 1787-88, Francesca da Rimini, 1788, tutte ancora irreperibili e sconosciute agli studi. Nel 1785 de Rossi descriveva quattro dipinti, serie alla quale appartennero originariamente questi due, rappresentanti celebri coppie mitologiche, oltre Bacco e Arianna e Amore e Psiche anche Tetide e Peleo e Plutone e Proserpina - queste ultime ancora non rintracciate -, destianti al principe torinese Dal Pozzo della Cisterna che ne avrebbe decorato la sua residenza insieme ad altri lavori contemporanei di "scelti professori" ispirati al gusto più aggiornato grazie al consiglio dell'erudito architetto conte di Benasco. Questa straordinaria descrizione conferma l'identificazione dei dipinti chiarendone gli elementi iconografici come quelli formali. Dopo aver elogiato l'incontentabilità tipica del carattere del Landi, aspetto che faceva prevedere futuri traguardi di eccellenza artistica in questa giovane promessa, de Rossi introduceva la descrizione e il commento dei quadri: "L'essere mal contento delle proprie opere, e lo scoprirvi ad ogni momento nuove mancanze fu sempre proprio dei maggiori Artisti: e se nei grandi ingegni (come in Leonardo da Vinci, ed altri) si rese talvolta difetto, inducendoli a guastare cose già molto alla perfezione vicine; e però sempre vero, ch'è questo un gran pregio in un giovane Pittore. Non saranno mai superate le difficoltà maggiori dell'arte da quel principiante, ce lusingato dall'amor proprio riguarda i suoi lavori non con severa critica, ma con dolce compiacenza. I talenti, e i studj del signor Gaspare Landi Piacentino ci fanno credere, che un giorno potrà annoverarsi fra valenti professori: ma ci conferma più nelle nostre speranze l'averci egli a replicate istanze pregato di non parlare di alcune sue opere, nelle quali egli troppo rigido crede di ravvisare i più gravi difetti. Sono queste quattro argomenti mitologici, da esso trattati con buona invenzione, e nei quali la mancanza di alcune bellezze, che vi si poteano aggiungere, devesi attribuire all'estrema fretta, con cui egli ha dovuto eseguirli. Rappresenta il primo di questi quattro quadri compagni con figure di tre palmi, e mezzo Arianna, e Bacco. Arianna siede sopra uno scoglio, e Bacco in piedi la guarda teneramente sorriedendo. Nella sinistra tiene il tirso, e nella destra una corona d'oro gemmata con cui vuole cingere la fronte ad Arianna, che volge con ben inteso scorcio la testa indietro, e passando la mano sinistra al fianco di Bacco colla destra tiene anch'essa la corona medesima. Ha ideato il pittore, che la preferenza di Bacco abbia fatto già nascere dietro lo scoglio una vite, che ricca di pampini, e di uve va stendendo i suoi tralci fra i tronchi vicini. Vedesi da lungi il mare, e sul lido la tenda di Teseo, ed Amore, che contento di aver consolato la bella Arianna corre colla face ad abbruciare la tenda del Greco infedele. Lo stile in cui è condotto questo quadro è assai buono, giacchè vi si conosce che l'Autore ha cercato di unire l'imitazione della natura alla scelta. Molto vera è l'espressione della testa di Arianna, che mostra negli occhi il passaggio dal dolore alla gioia. Le due figure sono disegnate con eleganza di forme, e colorite con vaghe tinte. Nell'attitudine dell'Arianna si vede, che il Pittore ha avuto in mira d'imitare la Dirce del famoso Toro Farnesiano, e nella testa del Bacco forse troppo servilmente ha seguito le forme dell'Antinoo." Dopo la tela di Tetide e Peleo de Rossi passava all'Amore e Psiche, il secondo dei quadri qui in esame: "Nel terzo quadro ha dipinto il signor Landi Amore, e Psiche. Ha immaginato egli, che mente Psiche piangeva, e dolevasi dell'imprudente sguardo, che le costava la perdita dello sposo, Amore sia sopraggiunto a consolarla, e a perdonarle: che all'apparire di lui sia sparito l'orrore del luogo deserto in cui la Ninfa trovavasi, e che la campagna abbia acquistato il più ridente aspetto, e siasi rivestita di alberi, e di fiori. Psiche riscossa dall'attitudine in cui sedeva appoggiando il gomito ad uno scoglio, e sostenendo colla sinistra mano la fronte, lascia il braccio nella situazione medesima, e si volge ad Amore, che a lei stringe la destra e colla placidezza del volto esprime, che le ha perdonato, e le accenna la sua reggia, che si vede in lontano. Un piccolo amorino in distanza siede, e guarda attonito la lucerna, quasi non possa comprendere come quel vile arnese fu cagione di tanto pianto. Nel corpo dell'amore ha cercato l'Autore d'imitare il bel Genio del Museo Vaticano, ma potea pure dare a questa divinità una fisionomia più graziosa, come più nobile potea averla la Psiche, la di cui figura è panneggiata con molto intendimento. Il colorito di questo quadro è florido al pari degli altri, e gli alberi, le erbe, ed i fiori sono dipinti con buona pratica, e risoluzione" ("Memorie per le Belle Arti, t. 11785, pp. 155-158). Sottolineando l'imitazione della natura scelta, cioè il "bello ideale" trascelto dalla natura e riunito armonicamente secondo l'esempio della scultura greca, lo stile classico dei panneggi, la semplicità compositiva, ma anche i riferimenti espliciti e voluti all'iconografia antica, al Toro Farnese, all'Antinoo, al Fauno di Prassitele dei Musei Vaticani, de Rossi coglieva la natura dimostrativa e programmatica del classicismo sperimentale landiano di questi anni. Contemporaneamente, elogiando l'espressione di Arianna, la qualità del colore, l'attenzione per la definizione dei dettagli che Landi avrebbe studiato guardando alla pittura dei "primitivi", ma che già qui sapeva sfumare in lontananza secondo la " prospettiva dei perdimenti" dell'amato Leonardo, intuiva quelle qualità che più sarebbero state in seguito apprezzate dai contemporanei. Scheda a cura del Professor Fernando Mazzocca e Stefano Grandesso, a cui vanno i nostri ringraziamenti per averne autorizzato la pubblicazione in anteprima.